Educare alle immagini


Fra semantica e raccolta differenziata

Questo è un articolo dedicato ai grandi, che passa per i “medi”, e arriva ai più piccini: l’immagine è infatti un segno che attraversa tutte le ere umane, tutte le sue età, il suo essere uomo e donna, il suo essere diverso ma anche simile, il suo essere, insomma.

Come in un tempio, come nel clan, anche oggi il mondo degli adulti detiene un controllo sul segno e su come questo debba essere consumato. Non si tratta di un adulto come quello che abbiamo sempre conosciuto tuttavia, infatti le chiavi del regno delle immagini sono oggi in mano a adulti per così dire “di fatto”, che non necessariamente sono “più grandi” perché più anziani, ma che sono certamente più “introdotti”, più strategicamente sensibili alla sfera della visualità, precocemente esperti, ordinari prematuri di una grammatica di selfie, location, landmarks, e topics. In effetti, si è abbassata l’età di chi gestisce la nostra “segnaletica relazionale”: i tempi di curatori cinquantenni che passavano nottate a far puzzare di sigarette le giacche di tweed di una mezza dozzina di redattori sono un ricordo che fu, adesso l’immagine è una materia prima-seconda, che abili trentenni sotto energy-drink riciclano in infinite forme, per non-finite volte, alla ricerca del “mi-piace” da monetizzare.

In questo passaggio di consegne e di responsabilità, avviene il transito dal “medi-universo”, un sopramondo di “medi” in tutto: per l’età, per la cultura, per le ambizioni, per le speranze; sono questi “medi” che consolidano il valore del segno, sono questi che lo consumano scambiandolo più volte, “condividendolo”, significando più o meno consapevolmente: loro fanno i numeri dei “like”, delle visualizzazioni, delle “impression”. Le immagini, dunque, arrivano ad essere cambiate su due piazze, quella della valutazione e quella della valuta, che si rincorrono e si sorpassano, ma senza mai scontrarsi, in un anello torricelliano, dove il pensiero critico vien visto al pari del vento contro.

Rotolando verso i più giovani, per arrivare ai bambini, questo “iconificio” dispiega tutto il suo potenziale, e là dove possono esistere individui da influenzare, nascono influencer, là dove ci sono comunità da rappresentare, crescono nuovi ambassador, là dove la luce fa capolino da una discontinuità visuale arriva il content-creator, e riempie, riempie, riempie.

Educare all’immagine oggi non è educare all’arte, quello è un livello successivo, o precedente, o forse addirittura parallelo; perché sì, adesso c’è la necessità di insegnare come vengono prodotte le immagini, cosa c’è dietro e attorno a quell’inquadratura in quattro-terzi: educare all’immagine significa fornire le competenze per decodificare un’etichetta, per capirne i valori nutrizionali, per decifrarne gli ingredienti e quelli fra questi potenzialmente nocivi, ed infine sapere come smaltire ed eventualmente riciclare, insomma in quale cassonetto gettare quella foto o quel reel.

Italo Calvino, nonostante potesse basarsi solamente un prequel naif di quello che i media avrebbero significato successivamente nella nostra quotidianità, nelle sue Lezioni americane metteva già in guardia i più dal “bombardamento” di immagini che può causare il “non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi”. L’analisi dell’Autore diventa poi ancora più puntuale: “la memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo”.

L’educazione all’immagine assume in effetti i connotati di una disciplina eclettica ed empirica, capace di attivare una serie di particolari recettori necessari alla riduzione della complessità in primis, quindi ad una efficace decodifica del significato dei segni ai quali si è garantito l’accesso ad una sfera intima; infine, dovrebbe formare anche ad una coscienziosa raccolta differenziata, che faccia ordine nel “deposito di spazzatura” calvinianamente detto, consentendo alla memoria di fare il suo lavoro, creando valori e priorità in un vissuto altrimenti pericolosamente indistinto.

Come quando da bambini facevamo storie…

 Riflettere sulla relazione “disegno-bambino” può essere utile a comprendere qual è il modo di “vivere un segno” prima ancora che lo si possa leggere.

Un bambino è un grande produttore di immagini e di segni, di-segni. Forse solamente un pittore, un grafico, un fotografo professionista, producono quotidianamente un numero di segni superiore a quello di un bambino. Per il bambino il disegno è un’esperienza tattile, esplorativa e… seriale. Attraverso le immagini che crea, un bambino esprime valutazioni ripetute ed incrementali del proprio vissuto, misura le distanze con le regole che gli vengono proposte e tenta di ricrearne altre, dà forma alla sua affettività, sperimenta gradualmente la sublimazione del segno in simbolo, e del simbolo in linguaggio. In queste sue immagini affiora progressivamente un’urgenza narrativa, ovvero la necessità di avere un “ascoltatore-osservatore”, che continui a dare un senso alla vita di quei segni. Il foglio di carta, che prima era solamente una membrana fra un mondo interiore ed uno esteriore, ora diventa un “media”: quante volte abbiamo chiesto ad una bimba o ad un bimbo di spiegarci un loro disegno innescando così l’articolato racconto di una storia, e quanto ancora li abbiamo sentiti parlare mentre muovono la matita sul foglio, in un tentativo quasi magico di poggiare parole e colori assieme sulla carta.

Queste considerazioni dovrebbero accendere subito due campanelli d’allarme: il primo ci allerta sulla complessità del rapporto fra bambino e disegno, che è qualcosa di più rispetto ad un semplice esercizio di pregrafismo (anche se indubbiamente fra i più efficaci); il secondo ci avvisa della necessità di adottare un’educazione all’immagine che non soltanto sia precoce, ma che tenga in considerazione la posizione nodale che il segno ha all’interno dell’evoluzione della personalità, e di quanto sia utile per negoziare positivamente le relazioni con gli “ascoltatori-osservatori”.

Educare alle immagini significa non dare per scontato che la loro destinazione d’uso ne attesti di per sé un valore educativo e formativo: le opere d’arte o le illustrazioni di un libro, per esempio, diventano educative all’interno di relazioni, nei rapporti con gli altri e con il mondo, nelle funzioni simboliche e strumentali che sono capaci di assumere, o che siamo capaci di far assumere loro all’interno di un processo definito e che miri al raggiungimento di determinati obbiettivi. Non esiste in questo senso un imprimatur di qualità educativa per l’immagine, sarà invece importante avvicinare i discenti ad essa come ad un media, cercando di focalizzare chi sta ai poli di quel ponte di significato che il segno stabilisce.

UN’IDEA PER IL FARE

Ci sono fotografie iconiche, delle quali possiamo facilmente reperire informazioni personali e di contesto sia di chi (o cosa) è raffigurato, sia di chi ha prodotto l’immagine stessa. In una lezione può essere interessante condividere con gli studenti una narrazione della vita e degli obiettivi espressivi che hanno mosso il fotografo, e della situazione individuale e ambientale del soggetto ritratto, per chiedere quindi alla classe di riprodurre lo scatto misterioso, facendo essi stessi da figuranti e scattando con un telefono, oppure anche disegnandolo.

Al termine dell’attività sarà possibile svelare lo scatto nascosto, commentandone la vicinanza e/o distanza con gli output della classe. Questo breve percorso immaginativo ed interpretativo, saranno d’aiuto nel personalizzare ed umanizzare l’immagine, contribuendo a caricarla con il “peso” valoriale che può portare con sé. Si tratta di una acquisizione di consapevolezza fondamentale anche nel momento in cui si passi a ragionare su immagini cosiddette “virali”, che spesso vengono consumate rapidamente, senza pensarci, costruendo su di loro una storia molto diversa da quella che custodiscono realmente.

Orientamento o spaesamento: L’anestesia del vedere e l’antidoto del tempo

Quel bambino che esplora attraverso le immagini, crescendo è solito orientarsi grazie alle immagini: un segnale stradale, un’insegna, i “consigli per gli acquisti”, l’affresco che spiega anche a chi non sa leggere la parabola della Bibbia, la fotografia che porta l’America nella casa di un futuro emigrante, che gli dice che c’è New York, dove sta, che è fatta di grattacieli, che brilla, che ne vale la pena.

Ora la proliferazione delle immagini, dovuta principalmente al fenomeno della “connected-camera” ovvero di un dispositivo che ha ridotto a zero il tempo che intercorre fra lo scatto e la sua distribuzione, fra il momento dell’inquadratura e del suo consumo, ha fatto sì che questa funzione fondamentale di orientamento che le immagini hanno sempre avuto nei confronti dell’umanità, si sia trasformata in un’ipertrofia disorientante. Tutti i docenti che hanno a che fare con studenti in età adolescenziale hanno sicuramente riscontrato nelle loro classi questo senso di spaesamento, una sensazione che ha a che fare con un rapporto con il tempo che va modificandosi, e che porta il fenomeno della visione preterintenzionale ad essere favorito rispetto all’attività consapevole del “guardare”.

Educare alle immagini significa dunque favorire tutte le attività necessarie a consolidare la consapevolezza nell’atto del guardare. Un esercizio di base consiste nel sapersi prendere il giusto tempo per guardare un’immagine, una vera e propria life-skill che può essere allenata anche a partire dall’osservazione di scene reali, non ancora mediatizzate. Il fattore tempo non influisce solamente sulla capacità critica ed interpretativa dei discenti, è infatti sostanziale anche per chi produce l’immagine: è in questo tempo infatti che, per esempio, il fotografo può effettuare una decisione, una scelta, la discriminazione di chi e cosa inquadrare, chi è dentro e chi è fuori. Le “connected-camera” e la germinazione incontrollata del selfie, in tutte le sue declinazioni, testimoniano come questa anoressia dei tempi sia stata portata all’estremo, trascinando nel suo “poch’essere” anche la dinamica dell’inquadratura, che avviene sempre sul soggetto più vicino e disponibile: noi stessi.

UN’IDEA PER IL FARE

Sviluppare una capacità di “osservazione attiva” significa promuovere l’attitudine immaginativa e il giudizio critico. Fra i molti esercizi che si possono fare insieme alla classe, ne suggeriamo uno particolarmente semplice ed efficace, che richiede solamente un banco, qualche lampada (e/o una finestra), ed una macchina fotografica (anche quella del nostro smartphone va bene).

Gli studenti dovranno portare da casa da un minimo di uno fino a tre oggetti che sono presenti all’interno della loro abitazione, gli oggetti saranno poi disposti sul banco ed illuminati dagli studenti, quindi verrà effettuato uno scatto, al quale lo studente dovrà dare un titolo; gli scatti saranno quindi raccolti dal docente, proiettati e commentati insieme.

Lo scopo è quello di portare fuori da un contesto scontato gli oggetti, trasportarli dal perimetro della visione accidentale, all’interno della sfera dell’osservazione intenzionale e critica.

Educare alle immagini vuol dire accettare l’idea che esista un secondo alfabeto, con tutte le conseguenze che questo comporta: la necessità di conoscerlo, la capacità di decodificarlo, la responsabilità nell’utilizzarlo. Il fotografo italiano Francesco Jodice ne sottolinea le diverse sfumature in alcune battute di una sua recente intervista, quando spiega l’educazione famigliare che ha ricevuto: “La sera riuniti guardavamo la TV come la maggior parte delle famiglie italiane. Ricordo che mio padre cambiava canale quando un programma era “fotografato male”: in casa siamo stati educati con l’idea che “chi vede male, pensa male”. Non saprei distinguere tra l’educazione di vita e quella artistica ricevuta dai miei genitori, ma di certo in casa nostra vigeva una sorta di “etica della visione”, comprendere il significato delle immagini equivaleva ad avere una buona proprietà di linguaggio”.

Valore e valori: L’anima delle immagini

Ragionando con teenager e giovani di fotografia ed immagini, si ha spesso la sensazione che queste debbano principalmente essere vettori di stati d’animo, con una forte predilezione per quelli che potremmo definire come “auto-riferiti”: l’educatore ha un ruolo importante in questo caso, in quanto ha il dovere di accendere i riflettori sulla vastità di un mondo iconografico e sulla sua storia, una storia all’interno della quale il romanticismo egotista ha un ruolo tutto sommato abbastanza marginale. Dalla battaglia di San Romano di Paolo Uccello, ai manifesti di propaganda sovietici, passando dai film di Chaplin, sino alle repliche di Warhol, l’immagine ha dispensato insegnamenti e provocazioni; è fondamentale, in questo senso, fare in modo che gli studenti possano porsi una domanda: le emozioni eventualmente associabili ad un’immagine sono un prodotto diretto o secondario rispetto ai valori che questa veicola e comunica?

Sono proprio i valori al centro di un’altra polarità necessaria per educare alle immagini: queste devono avere una valorizzazione. Valorizzare l’immagine significa poterla inquadrare all’interno di un contesto comunicativo, di uno spazio che non le resta neutrale, che è critico, partecipato, adatto a far sì che i soggetti fruitori entrino in relazione con l’immagine stessa e possano così posizionarla in una serie personale di memorie, di esperienze e, appunto, di valori.

UN’IDEA PER IL FARE

Il modo più efficace per sviluppare un laboratorio di classe sulla valorizzazione delle immagini è quello di condividere con ragazze e ragazzi 3 domande di base:

  1. Perché un’immagine è degna di essere vista?
  2. Chi lo decide?
  3. Perché un’immagine che aveva un valore nel 1800 oggi non è più in grado di comunicare?

L’obiettivo di questo dibattito aperto sarà quello di far emergere le caratteristiche di una sovrastruttura distributiva delle immagini, che riserva ad alcune di esse un posizionamento chiave all’interno di una comunicazione valoriale che è anche storicamente situata 8e spesso connotata anche dal punto di vista politico-ideologico).

Educare alle immagini, infine, deve sempre comprendere un esito che sia anche di tipo creativo perché l’immagine si pensa, si guarda, si apprezza, ma soprattutto si fa. Dedicare alcuni momenti per produrre immagini finalizzate con la classe è uno strumento formativo potentissimo per portare a completa emersione lo spirito critico di studentesse e studenti. Farli passare, per così dire, “dall’altra parte del bancone”, offrirà loro una chance per comprendere meglio quali sono gli ingredienti del cocktail audiovisivo all’interno del quale sono immersi ed a… berne responsabilmente.